MUSIC PLAYER – Abbondanza scozzese e dediche d’amore di dubbio gusto…

I (particolarmente soddisfatti) tifosi del Maccabi Tel Aviv (fonte: deporadictos.com)

I (particolarmente soddisfatti) tifosi del Maccabi Tel Aviv (fonte: deporadictos.com)

C’è chi dice che nella vita bisogna accontentarsi. Per altri invece il bello delle cose buone è l’eccesso.

Visto che qua si parlerebbe di sport, proviamo a declinare nel modo giusto. Voi preferireste che la vostra squadra vinca sempre o vi piacerebbe anche solo qualche successo ogni tanto, ma magari significativo, inatteso e storico?

Eh, vedete che pare meno semplice di quanto sembri. Provo a farvi luce con un esempio pratico. In Israele si sono giocate 59 edizioni della Ligat ha’Al, il locale campionato di pallacanestro. Di queste ben 50 sono state vinte dal Maccabi Tel Aviv, cioè quasi l’85% del totale. La situazione è stata quasi grottesca tra il 1970 e il 2007, quando i gialloblu vinsero 37 campionati su 38, con due strisce di 23 e 14 successi di fila.

Ecco state sicuri che ai tifosi del Maccabi ‘sta situazione tanto schifo non ha mai fatto. Anche nel calcio vi sono esempi simili, ma è difficile trovare un dominio simile di una sola squadra. Più facile trovare competizioni dominate da più compagini.

Fasi concitate durante uno degli ultimi derby di Glasgow (fonte: dailymail.co.uk)

Fasi concitate durante uno degli ultimi derby di Glasgow (fonte: dailymail.co.uk)

La Scozia è il caso emblematico. Come tutti voi sapete, nella terra di Highlander, vige la terribile dittatura dell’Old Firm: Celtic e Rangers, Rangers e Celtic. Anzi negli ultimi anni solo Celtic perchè i rivali si sono impantanati con brutte storie finanziarie e ora cercano di scalare le serie minori dopo essere stati retrocessi d’ufficio nei bassifondi.

Prendiamo l‘albo d’oro e facciamo due calcoli. 119 edizioni di campionato, 54 successi dei Rangers, 44 del Celtic, i restanti 19 mancia per gli altri. Nel podio di tutti i tempi, le terze classificate sono Hibernian, Hearts e Aberdeen staccate con solo 4 vittorie. Molto staccate. L’ultima affermazione non targata Glasgow risale al 1984-1985, quando fu l’Aberdeen a trionfare. Con in panchina un certo Alex Ferguson, mica uno qualunque.

Vabbè, vi risparmio le percentuali e taglio corto. Se siete scozzesi e non tifate quelle due lì, siete costretti ad accontentarvi, non si scappa. Viceversa avete di che scialarvi, al punto che, stufi del solito tran tran di coppe alzate, festeggiamenti e coriandoli colorati nei capelli, potreste pensare di parteggiare, in modo più o meno spinto, per un’altra squadra di un campionato vicino. L’Inghilterra, per esempio.

A dir la verità, a guardare nella vicina Albione ci pensano già direttamente i dirigenti di Celtic e Rangers. Più volte hanno minacciato di volersi spostare in Premier League, ma per ora non se n’è fatto niente, per un motivo o per l’altro.

Fasi concitate durante un recente Liverpool-Manchester United (fonte: footballaccumulator.co)

Fasi concitate durante un recente Liverpool-Manchester United (fonte: footballaccumulator.co)

Torniamo ai tifosi. Pur tormentati anche loro sulla possibilità di traslocare a sud, spesso cercano altri colori da guardare con simpatia. Visto a cosa può portare l’abbondanza?

In particolare molti sostenitori del Celtic hanno una simpatia per il Liverpool. Altri invece, se devono scegliere una compagine inglese, preferiscono il Manchester United. A ben vedere, una situazione un po’ ingarbugliata perché è come se alcuni simpatizzassero per l’Inter e altri per la Juventus.

In effetti, le scuole di pensiero sono diverse. In linea di principio la corrente maggioritaria è quella che preferisce i Reds ai Red Devils, anche in virtù di uno storico gemellaggio, suggellato dal comune utilizzo dello stesso inno, l’immortale “You’ll never walk alone”.

Nonostante questo i tifosi Celtic con simpatie per lo United non sono pochi e hanno trovato un endorsement di un certo livello grazie ad un personaggio che dell’abbondanza, il concetto cardine da cui è partito questo articolo, ne ha fatto uno stile di vita.

Il buon Rod Stewart nel 1976 (fonte: wikipedia.com)

Il buon Rod Stewart nel 1976 (fonte: wikipedia.com)

Parlo di Rod Stewart. Nato a Londra da genitori scozzesi, il nostro è stato per anni indiscusso protagonista della scena musicale britannica e mondiale, grazie ad una voce singolare, un grande carisma e una fama da tombeur de femme di un certo livello.

Tutto questo sommato ha prodotto 100 milioni di dischi venduti nel mondo, tre matrimoni, sa dio quanti flirt assortiti e 8 figli. Dicevamo dell’abbondanza?

Tra le passioni di Stewart, oltre alle due che penso abbiate intuito, c’è anche il calcio, sport che ha praticato a livello amatoriale. La sua squadra preferita? Il Celtic. E il Manchester United, ovvio.

La sua passione per queste due squadre è talmente grande che ha sconfinato negli altri suoi amori. Nel 1977, in un periodo in cui anche se avesse inciso un rutto rischiava il disco d’oro, esce il singolo “You’re in my heart”, romantica ballata dedicata a Britt Ekland, attrice e cantante svedese, discreta bellezza e, ça va sans dire, fiamma del buon Rod negli anni ’70.

Britt Ekland. Che all'epoca fosse meglio di Celtic e United è fuor di dubbio (fonte: celebheightslist.com)

Britt Ekland. Che all’epoca fosse meglio di Celtic e United è fuor di dubbio (fonte: celebheightslist.com)

Per farle un complimento, ad un certo punto recita in un verso: «You’re Celtic, United, but baby I’ve decided you’re the best team I’ve never seen». Traduco (alla bisogna): «Sei come il Celtic, come il Manchester United, ma piccola ho deciso che tu sei la miglior squadra che abbia mai visto».

Bah, non suona poi benissimo come romanticheria da cantare ad una donna, non trovate?

Oh, è vero anche che lui era e sarà sempre Rod Stewart e tutti noi solo dei poveri stronzi ma, non so voi, se io andassi dalla mia ragazza a cantarle «Sei come il Palermo, sei come il Werder Brema», minimo mi becco una querela…

 

P.S. Il video è di un’esibizione relativamente recente. Da notare la scritta dietro la camicia verde. E notare la classe con cui la indossa con una maglietta gialla.

Torna A52 in radio – Viaggiamo nei Balcani alla ricerca di una squadra che non c’è più

Un 11 jugoslavo (fonte: fotolog.com)

Un 11 jugoslavo (fonte: fotolog.com)

Tra le tante attività legate ad A52 che ritornano in questo periodo c’è, ovviamente, il programma radiofonico su Radio Doppio Malto.

Siamo tornati con una puntata di stampo balcanico, con molto calcio, un po’ di basket e tanto altro.

Abbiamo attraversato il Mar Adriatico e siamo andati alla scoperta della nazionale di calcio jugoslava. Che squadra era? Cosa ha vinto? Come sarebbe oggi?

Come sempre, buon ascolto!

Pedate dei Caraibi – Storie di Mondiali, ricordando la partita più strana di sempre

In questo articolo ci spostiamo qua

In questo articolo ci spostiamo qua

La Confederations Cup che si è giocata in questi giorni ci ha ricordato due cose.

La prima riguarda la partecipazione della nazionale di Tahiti. 22 onesti e volenterosi dilettanti guidati da un solo professionista, Marama Vahirua, neanche di primo livello. La loro presenza è stata un momento di riscatto per tutto quel calcio che potremmo definire “altro“. Niente milioni di euro, niente businness, solo passione e calore. E chissene se poi si finisce per prendere 24 gol in 3 partite.

Il secondo promemoria è un po’ meno romantico. La Confederations Cup rimarrà negli annali anche per quello che è successo fuori dagli stadi. Le proteste del popolo brasiliano hanno fatto notizia, traendo giovamento dalla cassa di risonanza creata dal calcio. Ma i vertici di questo sport, soprattutto un certo settantenne svizzero dalle idee sempre un po’ confuse, se ne sono usciti con commenti infelici, ciechi e dimenticabili. Insomma, tutto ciò ci ha mostrato ancora di più come i dirigenti che controllano il pallone siano spesso inadeguati.

Marama Vahirua, l'unico professionista di Tahiti

Marama Vahirua, l’unico professionista di Tahiti

Questo lungo cappello sull’attualità ci serve da preambolo per una storia legata a questi due punti: il calcio sommerso e l’incopetenza dirigenziale.

Torniamo indietro di una ventina d’anni. Dove andiamo? Dai, per una volta un posto caldo e soleggiato. Vanno bene i Caraibi? Ottimo.

Il calcio da quelle parti non ha mai avuto grandissimo successo, anche perchè risente della concorrenza di altri sport più radicati (cricket o baseball) o molto più remunerativi per le caratteristiche degli indigeni (atletica leggera).

Nonostante questo a pallone si gioca. Il calcio caraibico, a livello mondiale, ha avuto quattro momenti di gloria, coincidenti con le partecipazioni delle nazionali della zona alla Coppa del Mondo.

L'uomo che ci mise paura nel 1974

L’uomo che ci mise paura nel 1974

Nel 1938 fu Cuba a rompere il ghiaccio. Fidel Castro e il socialismo sono una ventina d’anni dall’arrivare, Fulgencio Batista governa e la nazionale riesce a qualificarsi per il Mondiale. Oddio, riesce…in pratica nella loro zona si ritirano tutti per protesta contro la FIFA, colpevole di aver mandato a ramengo dopo tre edizioni il proposito si alternare la sede del torneo tra vecchio e nuovo continente. I cubani, mica scemi, non rinunciano e vanno.

Al primo turno c’è la Romania. Finisce 2-2 al 90′ e 3-3 dopo i supplementari. I rigori ancora non esistono e si rigioca quattro giorni dopo. Tra la sorpresa generale i caraibici vincono 2-1 in rimonta e passano ai quarti. Avversario la Svezia, ma finisce maluccio, 8-0 per gli scandinavi.

Per rivedere i Caraibi ai mondiali bisogna aspettare quasi 40 anni. Nel 1974, in Germania, è la volta di Haiti. Partecipazione celeberrima in Italia. Contro di loro giochiamo la famosa partita del gol di Sanon, che interrompe il record di imbattibilità di Zoff, e del vaffa in mondovisione di Chinaglia a Valcareggi. Finisce 3-1 per gli azzurri e per qualche giorno si pensa che gli haitiani non siano poi così malvagi. Peccato che poi ne prendano 7 dalla Polonia e 4 dall’Argentina. Insomma il problema siamo noi e infatti andiamo subito a casa.

Theodore Whitmore, eroe della Giamaica 1998

Theodore Whitmore, eroe della Giamaica 1998

Nel 1998 la Coppa del Mondo torna in Francia e tornano anche i Caraibi. A qualificarsi è la Giamaica. Contro Croazia e Argentina finisce male, ma all’ultima partita arriva la storica vittoria contro il Giappone.

L’ultimo caso è recente, nel 2006. In Germania arriva Trinidad e Tobago, guidata da quello che forse è il più forte caraibico di sempre, l’attaccante Dwight Yorke. Attaccante che per l’occasione arretra a centrocampo per dare un po’ più di costrutto alla manovra. All’esordio è un ottimo 0-0 contro la Svezia. Nella seconda partita si resiste per 83 minuti contro l’Inghilterra, per poi capitolare e di fatto uscire.

Dwight Yorke, leader di Trinidad e forse di tutti i Caraibi

Dwight Yorke, leader di Trinidad e forse di tutti i Caraibi

Come vedete, il calcio caraibico ha sempre fatto un po’ di fatica ad imporsi nel mondo. Per le nazionali della zona, più che la Gold Cup, il torneo della CONCACAF dove comunque son sempre schiaffoni, il vero obiettivo è la Caribbean Cup, la Coppa dei Caraibi.

Si svolge proprio durante una partita di qualificazione a questo torneo il fatto di cui facevo cenno prima di questo nostro excursus.

È il 1993 e ci si gioca un posto per l’edizione dell’anno successivo. Nel Gruppo 1 sono inserite Porto Rico, Barbados e Grenada. Tre stati in cui il calcio non ha il primato. A Porto Rico domina da sempre il basket, mentre da Barbados sono usciti alcuni buoni velocisti (Obadele Thompson su tutti). E a Grenada? Beh, hanno il cricket. E una sciatrice. Sì, non avete letto male. Nel paese il monte più alto non raggiunge i 900 metri e la neve è un concetto abbastanza oscuro, ma a fine anni ’90, l’austriaca Elfi Eder, slalomista di buon livello, va in rotta con la sua federazione e decide di gareggiare con i colori caraibici. Purtroppo ha già sparato le cartucce migliori della carriera.

Elfi Eder, grenadina DOC. Più o meno...

Elfi Eder, grenadina DOC. Più o meno…

Torniamo al calcio. Nella prima sfida Porto Rico regola Barbados per 1-0. La partita successiva tra i portoricani e Grenada finisce 0-0. Si va ai supplementari. Ma come? Siamo nel girone, un punto a testa, no? No, perchè gli organizzatori hanno deciso che il pareggio pare brutto. Prima del 120′ comunque è Grenada a segnare il primo gol della partita. Gol che vale il…2-0! Sì, sempre colpa degli organizzatori. Il gol nei supplementari è un golden goal e vale doppio. Vi sembra una scemenza? Aspettate il resto della storia…

Passa solo la prima. Porto Rico è ormai fuori dai giochi. Barbados-Grenada è decisiva. Ai primi serve una vittoria con due gol di scarto, agli altri basta tutto il resto.

A dieci minuti dalla fine Barbados sembra farcela. Vince 2-0. All’83’ però arriva il gol di Grenada che rovina tutto. Serve un altro gol. Il 3-1, ovvio. O forse no? I barbadiani mettono in moto l’ingegno e intuiscono la mandrakata. Difficile segnare con così poco tempo a disposizione. Meglio andare ai supplementari e avere mezz’ora a disposizione per mettere a segno una rete che vale doppio. Ergo, all’87’ si fanno autogol di proposito.

L'autogol volontario di Barbados

L’autogol volontario di Barbados

I grenadini sono storditi dalla cosa. Poi ci arrivano. Qua ci vogliono coglionare. Capiscono che ora anche loro hanno bisogno di un gol. Uno qualsiasi, per loro o per gli altri basta che sia gol. Gli ultimi tre minuti sono puro teatro dell’assurdo. Da una parte una squadra che cerca di infilare il pallone in una qualsiasi delle porte, dall’altra una che le difende entrambe.

Hanno la meglio quest’ultimi perchè al novantesimo finisce 2-2. Ai supplementari, forse ancora in stato confusionale, Grenada cede e subisce il 3-2. Pardon, 4-2.

Barbados passa il turno e va a giocare la fase finale della Coppa dei Caraibi dove però esce fuori subito. Nel frattempo quella partita entra nel mito e diventa quasi una leggenda metropolitana. Tutto per una decisione discutibile dei dirigenti, di quelli che comandano.

Mi sento fregato. La persona che se n’è uscita con queste regole dovrebbe essere rinchiusa in manicomio“, dichiara nel post-partita James Clarkson, allenatore di Grenada.

E vagli a dare torto…

Torna A52 in radio. Si parla di draft NBA e non solo.

David Stern, commisioner della NBA e protagonista di molti draft

David Stern, commisioner della NBA e protagonista di molti draft

A52, lo sapete, è nata come una trasmissione radiofonica. E ogni mese torna a raccontarvi una storia.

Oggi è uscita l’ultima puntata. Si parla di basket NBA, ma non delle Finals. Noi ci portiamo avanti e andiamo oltre. Andiamo a fine giugno, quando ci sarà il draft.

Lo spiegheremo, lo racconteremo e andremo alla ricerca delle sue storie più curiose.

Come sempre, buon ascolto.

L’uomo contro il tempo – Storie di buzzer beater ad A52

Il nemico di oggi

Il nemico di oggi

In questi giorni è disponibile online, la nuova puntata della trasmissione radiofonica A52, sempre sulle “frequenze” di Radio Doppio Malto!

Torniamo a parlare di basket. Visto che tra poco inizieranno i playoff della NBA, andremo a rivedere alcuni dei più emozionanti finali di partita del passato recente di questo straordinario campionato.

Come sempre, buon ascolto!

NBA, stagione 2001-2002: Kings e Nets, ossia come perdere sul campo e vincere nel mito.

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La nostra storia inizia ( e finisce…) qua.

12 giugno 2011. American Airlines Arena, Miami, Florida, Stati Uniti d’America.

Suona la sirena finale della sesta partita delle finali NBA. I Dallas Mavericks hanno vinto la quarta partita della serie contro i padroni di casa, i Miami Heat del super trio James-Wade-Bosh. Sono i nuovi campioni NBA.

Dirk Nowitzki, una delle cose più belle uscite dalla Germania nel secolo scorso, leader e miglior giocatore dei texani, non regge all’emozione e scappa in lacrime negli spogliatoi. Poi dicono che i tedeschi son di ghiaccio… Tornerà per la premiazione. I suoi compagni ci sono tutti e non può mica mancare lui. Tra questi, tra l’altro, ce ne sono un paio che avrebbero anche loro dei bei motivi per commuoversi…

Flashback.

2001. Come sempre, per fine ottobre è prevista la partenza dell’NBA. Campioni in carica, i Los Angeles Lakers di Shaquille O’Neal, ancora il centro più dominante del mondo, di Kobe Bryant, ancora col numero 8 e non ancora Black Mamba, e di coach Phil Jackson, hoy, mañana y siempre il maestro Zen del basket. Ma prima che inizi la stagione due o tre cose succedono.

L’evento con la E, ma anche con tutte le altre lettere, maiuscola è il ritorno di Michael Jordan. Nell’ombra di tale notizia i general manager delle, all’epoca, 29 squadre NBA, si incontrano e telano. Il 29 giugno viene resa ufficiale un’operazione. I Phoenix Suns decidono di mandare il loro playmaker Jason Kidd ai New Jersey Nets in cambio di Stephon Marbury, miglior giocatore dei Nets, idolo di tutta New York e tipo vagamente pieno di se stesso. Povero Kidd, pensano in molti…perchè? Beh, stagione 2000-2001: Phoenix Suns, 51 vittorie e 31 sconfitte. New Jersey Nets, 26 vittorie e 56 sconfitte…tutto chiaro ora, no?

Bene, ora Jason e Stephon lasciamoli lì e andiamo a farci un giro in California.

La nostra storia prosegue qui.

La nostra storia prosegue qui.

Sacramento!

No, non è un’imprecazione. È la capitale. Nonchè sede dei Kings, i Sacramento Kings. In città c’è fervore ed eccitazione. La stagione 2000-2001 è stata molto buona. 55 vittorie in stagione regolare e cammino ai playoff interrotto al secondo turno per mano dei fortissimi Los Angeles Lakers. Forti sì, ma anche odiosi per tutti i tifosi. Loro comunque ci credono. Quella del 2001-2002 può essere la stagione buona.

Coach Rick Adelman ha per le mani una squadra ottima, a cui fa giocare un basket piacevole e offensivo. Forse, se un difetto si può trovare, è nel cervello della squadra. Jason Williams è uno degli idoli dei tifosi. Bianco, sfrontato, spettacolare, non a caso soprannominato “white chocolate”. Forse però c’è bisogno di qualcuno di più quadrato. Il cioccolato bianco viene mandato ai Grizzlies, che in quelle ore avevano giusto finito di traslocare dalla fredda Vancouver alla umida Memphis, in cambio di Mike Bibby. Figlio d’arte, buon passatore, un buon numero di punti nelle mani. Quadrato.

Nella posizione di guardia c’è Doug Christie, specialista difensivo. Il problema è che la marcatura più asfissiante della sua vita la subisca. Dalla moglie. I due sono inseparabili, comunicano a distanza con un linguaggio di gesti tutto loro e si risposano ogni anno. In ala piccola Predrag Stojakovic, detto Peja, serbo i cui tiri da tre sembrano pennellate del Botticelli. Ad aiutarlo nella comprensione del gioco e, soprattutto, degli americani ci pensa da qualche anno il connazionale Vlade Divac, il centro della squadra. Fisico da boscaiolo, ma mani da pianista, barba sempre incolta e sigarette fumate in quantità. Passa divinamente e spesso il destinatario dei suoi assist è Chris Webber, ala grande, stella riconosciuta della squadra. Dalla panchina escono sempre contributi importanti, soprattutto dal turco Hedo Turkoglu e da Scott Pollard, centro di riserva col vizio del trasformismo estetico.

La squadra gira bene. Molto bene. Il palazzetto, l’ARCO Arena, fa registrare sempre il tutto esaurito e il pubblico è tra i più “europei” della lega. A fine anno il tabellino proprio brutto non è: 82 partite, 61 vittorie e 21 sconfitte. Riassunto in breve, miglior squadra della lega. Chi li ferma a questi? Di sicuro non gli Utah Jazz che vengono eliminati 3 a 1 al primo turno dei playoff. E nemmeno i Dallas Mavericks che subiscono un 4 a 1 senza troppe storie.

Si arriva alla finale della Western Conference. Avversari gli odiati Los Angeles Lakers che, sì, hanno avuto una stagione di alti e bassi, sì, vivono sempre di equilibri precari, sì, non hanno chissà quale panchina, ma son sempre lì. Il 18 maggio va in scena gara 1 all’ARCO Arena. I gialloviola vincono di 7 punti. I Kings reagiscono. 96-90 in gara 2 e 103 a 90 in gara 3, in trasferta.

Gara 4. Nelle serie a sette partite la quarta è spesso quella che gli americani chiamano “a pivotal game”, una gara decisiva, chiave, dove si chiarisce tutto. I Kings possono fare la storia. Con una vittoria andrebbero sul 3 a 1 con altre due partite in casa da sfruttare. Partono forte, molto forte. Giocano bene, segnano, sono in controllo. I Lakers non sembrano capirci molto. Al secondo quarto il tabellone segna un clamoroso 48 a 24 a favore di Sacramento. Basta, finita.

L'uomo dell'ultimo tiro.

L’uomo dell’ultimo tiro.

No. Succede che i Lakers alla fine qualcosa ci capiscono. Shaq inizia a fare lo Shaq. I Kings forse non si rendono conto di quello che sta succedendo. Il vantaggio diminuisce. La partita scivola. Ad un minuto dalla fine Sacramento è avanti 98 a 93. Un canestro di Bryant e un clamoroso 2 su 2 dalla lunetta di O’Neal portano i Lakers a -1. Los Angeles fa fallo per fermare il cronometro. Rimessa, fallo su Divac, due tiri liberi per il serbo. Il primo si ferma sul ferro, il secondo va dentro. 11.8 secondi sul cronometro. Rimessa Lakers. Kobe entra. Sbaglia. Shaq recupera il rimbalzo e va per il tap in. Sbaglia. La palla è lì che vaga nell’aria. Divac la smanaccia fuori. Mancano due secondi. Finita.

No. Perchè sul perimetro è appostato Robert Horry, ala grande dei Lakers che ha costruito una carriera su due aspetti del suo gioco. Uno è la difesa. L’altro il tiro da tre. Anche nelle situazioni decisive? Soprattutto nelle situazioni decisive. Recupera la palla, prende la mira, carica e tira. Tutti giocatori dei Kings sono sotto canestro, un paio provano il recupero disperato. Suona la sirena. Solo cotone. I Lakers vincono 100 a 99. Primo e unico vantaggio della partita. La serie è 2 a 2.

Ci sarebbe ancora tempo e modo di salvare la situazione, ma di fatto quel tiro di Horry è l’uppercut decisivo che stende i Kings. I quali riescono anche a vincere gara 5, ma poi cedono il passo sia nella sesta partita che nell’ultima decisiva sfida, persa ai supplementari. In tutto questo, il più amareggiato di tutti non può che essere Peja Stojakovic. È l’anno della sua consacrazione, ma quella serie fondamentale non può giocarla per intero a causa di un infortunio. Salta le prime quattro partite e torna, dalla panchina, per le ultime tre. In gara 7 il suo apporto può essere determinante. Ma lui manca. È una serata storta, come il suo tiro di solito quasi infallibile. Dalla linea dei 3 punti fa registrare un triste 0 su 6…

La nostra storia prosegue qua.

La nostra storia prosegue qua.

I Lakers vanno quindi in finale per la terza volta consecutiva. Avversari? Facciamo un giro nel New Jersey.

Jason Kidd ha fatto il miracolo. Prima di lui la franchigia è la barzelletta della lega. Non conclude una stagione vincente da anni e in generale quando questo succede è un evento. Inoltre non hanno in pratica una città di riferimento. Il palazzetto è stato costruito sopra una palude in una zona di East Rutherford, New Jersey, ed è considerato una delle peggiori, se non la peggiore, arena dell’NBA. I giocatori che vi finiscono non sono mai molto contenti e neanche i tifosi, a giudicare dalla basse presenze stagionali. I pochi che ci vanno sembrano quasi vergognarsi, come dimostrano quei geni che ogni tanto si presentano con un sacchetto di carta in testa per non farsi riconoscere.

Kidd prende questo circo e lo fa diventare un Flying Circus, uno spettacolo. Sotto la sua regia i Nets diventano una delle squadre più divertenti e, incredibile, vincenti della lega. Kenyon Martin, Keith Van Horn, Richard Jefferson e Kerry Kittles i maggiori beneficiari della cura del nuovo playmaker. La stagione si chiude con un record di 52 vittorie e 30 sconfitte, il migliore della Eastern Conference, e Kidd arriva a qualche manciata di punti da diventare l’MVP della stagione regolare. E i Phoenix Suns di Stephon Marbury? Lasciamo stare, va…

I playoff iniziano con un piccolo shock. Alla prima partita arriva un’inaspettata sconfitta contro gli Indiana Pacers, teoricamente la meno forte delle squadre arrivate alla post-season. I Nets, pur soffrendo, raddrizzano il tiro e vincono la serie 3 a 2. Nei turni successivo hanno la meglio sugli Charlotte Hornets (4 a 1) e sui Boston Celtics (4 a 2 dopo essere stati sotto 2 a1).

È finale. La prima nella storia della franchigia. Ad attenderli, come detto, i Los Angeles Lakers. Non c’è storia. I californiani sono troppo forti. I Nets forse sono già appagati dal solo fatto di essere arrivati fin lì. Finisce 4 a 0.

L’epopea della New Jersey non termina. L’anno successivo è ancora finale, ma arriva un’altra sconfitta, 4 a 2 contro i San Antonio Spurs. Dopo ci sono altre buone stagioni, ma mai più una finale, né tanto meno il titolo. La squadra scivola nell’anonimato e nel 2008 Kidd viene ceduto ai Dallas Mavericks.

Torniamo al 2011.

Peja e Jason, i due protagonisti.

Peja e Jason, i due protagonisti.

David Stern, il commisioner della NBA, in sostanza il boss di tutta la baracca, si congratula coi nuovi campioni NBA, i Dallas Mavericks. Tutti gli occhi e i complimenti sono per Nowitzki, ma più di qualcuno si ricorda di un altro giocatore che ha dato un contributo fondamentale. Kidd ha ormai 38 anni, ma passatori e difensori come lui ce ne sono sempre pochi. Finalmente, dopo 17 anni di NBA e 9 anni dopo l’esordio del Flying Circus, è campione NBA. Vicino a lui, con la stessa casacca, Peja Stojakovic sorride soddisfatto. Ha avuto un ruolo marginale in finale e i numeri sono lontani da quelli di una volta. Ma avrà l’anello anche lui. E forse finalmente qualcuno la smetterà di ricordargli quello 0 su 6 da 3 di una triste serata di inizio giugno di due lustri prima…

Serie A e All Star Game di basket: ne parlo su Il Referendum

"Votate" per Il Referendum.it

“Votate” per Il Referendum.it

Come ogni lunedì è stato pubblicato un mio articolo sul giornale online Il Referendum. Anzi, eccezionalmente sono due.

In uno parlo dell’All Star Game del campionato italiano di basket. Sembra molto interessante la nazionale sperimentale che è stata presentata.

L’altro è invece il resoconto della diciassettesima giornata del campionato di serie A di calcio. La Juventus sembra infermabile. Resisterà su questi ritmi?

MUSIC PLAYER – Il cestista, il benzinaio e la marmellata

(AVVISO AI NAVIGANTI: i post appartenenti alla categoria Music Player avranno una caratteristica precisa, ossia quella di proporvi una canzone da ascoltare. I brani saranno tutti collegati al mondo dello sport. Buona lettura e buon ascolto).

Daron...

Daron…

Daron è nato in Texas. A Garland, per la precisione, contea di Dallas. Non è altissimo, solo un metro 85 centimetri, ma gli piace giocare a basket. Fa parte della squadra del suo liceo ed è un buon playmaker. È veloce, sa passare, ha un buon tiro, ma il meglio di sè lo da quando la palla ce l’hanno gli avversari. Sa difendere duro e riesce a rubare molti palloni.

Jeff e Stone sono amici e vivono a Seattle. Amano la musica e suonano. Stone viene da una brutta esperienza. Il cantante della band precedente è morto di overdose. Ora vorrebbe riformare un gruppo con Jeff e Mike, un altro suo amico. Registrano un demo di cinque pezzi, ma c’è un problema: manca un cantante. Grazie ad amicizie comuni forse ne trovano uno. Si chiama Eddie, vive a San Diego e fa il benzinaio…

Grazie alla sua abilità sul parquet, Daron riesce a frequentare per due anni la University of Oklahoma, una delle università pubbliche più importanti degli Stati Uniti, famosa anche per il suo programma sportivo. Nel 1988 trascina la squadra alla finale nazionale contro Kansas. Sono favoritissimi, ma perdono. Nell’estate del 1989 decide di passare tra i professionisti della NBA. Al draft, la cerimonia con la quale le squadre scelgono a turno le nuove leve, è la dodicesima scelta assoluta e sono i New Jersey Nets a farlo loro. La squadra è quello che è, finisce la stagione con un record di 17 vittorie su 72 partite, ma Daron non gioca male.

Hai capito sto Eddie? Ha ricevuto il demo e ci ha scritto sopra dei testi davvero belli. Jeff, Stone e Mike decidono che la cosa può funzionare. Gli fanno un’audizione. Sì, lo prendono.

Daron sta tre anni ai Nets. Nell’estate del 1992 viene scambiato con un altro giocatore e va agli Atlanta Hawks, dove rimane per ben 7 stagioni, le migliori della sua carriera. Conferma le sue doti. È un buon playmaker e un ottimo difensore. Nel 1999 si tresferisce ai Golden State Warriors con i quali gioca altri tre anni. A 35 anni si ritira. Il numero che ha sempre portato è il 10. Sopra di esso il cognome, Blaylock. Ma è inutile che cerchiate negli annali NBA il nome Daron Blaylock. Per tutti è sempre stato Mookie. Mookie Blaylock.

I Mookie Blaylock...

I Mookie Blaylock…

Jeff, Stone, Mike e il benzinaio californiano hanno appena finito la loro prima registrazione. Sono soddisfatti del loro lavoro. Le cose sembrano andare per il meglio. Hanno anche in programma un tour. Ma c’è un problema. Non sanno come chiamarsi. Qualcuno di loro ha pacchetto di card dei giocatori di basket. In una di queste c’è raffigurato Mookie Blaylock, giovane talento dei New Jersey Nets. Decidono di infilarla nella custodia, a mò di copertina. D’accordo, ma il problema rimane: come ci chiamiamo? Qualcuno vede la card. “Che ne pensate di Mookie Blaylock?”. Tutti d’accordo.

Poi, sapete come funzionano certe cose, diritti, questioni legali, è un bel casino. Mookie Blaylock non è male come nome, ma è meglio cambiare. Pearl Jam. Sì, secondo me Pearl Jam può andare.

P.S. La canzone è nell’album Ten. Dieci. 10. Vi ricorda niente?